mercoledì 22 aprile 2009

C'ERA UNA VOLTA LA FABBRICA DEI PRETI

(il Piccolo - 08 marzo 2009 - pagina 25 - sezione: CULTURA - SPETTACOLO)

di PAOLO RUMIZ

Il parroco di Paluzza che alza la voce contro le interferenze del Vaticano sul caso di Eluana Englaro.
Preti carnici arroccati nelle loro valli, con al petto il simbolo alessandrino della chiesa aquileiese e non di quella romana. Tonache irriducibili, in trincea per la conservazione della lingua e della civiltà friulana. Greggi di fedeli montanari in bilico tra cattolicesimo e protestantesimo. Un’ostilità della periferia contro il centralismo di un’Ecclesia che punta alle “piazze piene” e non tiene conto delle “chiese vuote”. Una terra anarchica e socialista, Carnia “cence Dio e cence Madone”.

Per capire questo piccolo mondo ai limiti dello scisma, mi hanno detto a Udine, devi leggerti le quattrocento pagine in friulano di un libro semiclandestino e mai tradotto: “La fabriche dai predis” . La fabbrica dei preti, cioè il seminario, descritto come struttura immutabile, iperconservatrice e sessuofobia. Un micidiale pamphlet, gonfio di una lingua schietta fino alla truculenza, scritto non da un politico anticlericale, ma un indomabile prete carnico, il fu Antonio Bellina . Un tipo combattivo e scomodo, attaccato al popolo di Dio, insofferente delle gerarchie e di conseguenza relegato in una parrocchia di periferia, Basagliapenta. Narrano che quando Wojtyla annunciò la sua visita in Friuli, solo una persona osò protestare per l’enormità della spesa. Era sempre lui, “pre Toni Beline” , figlio della Carnia amara. La Curia tentò di tacitarlo, ma quello non era tipo da star zitto e aveva tutti i numeri per parlare: in vent’anni di lavoro “matto e disperatissimo” aveva tradotto la Bibbia in friulano e la sua fatica aveva potentemente contribuito al riconoscimento ufficiale della lingua, gettando le basi delle leggi speciali a tutela della sua gente.
E così, dieci anni fa, alla fine di una vita di obbedienza, questo piccolo Lutero del Nordest ha deciso di vuotare il sacco e raccontare l’ultimo segreto del suo mondo. Il più intimo, quello del collegio che per quattro secoli – dal concilio di Trento in poi - ha formato generazioni di preti: il seminario. Quattrocento pagine scritte tutte d’un fiato, come una liberazione. Figurarsi il putiferio in curia.
Il testo fu immediatamente tolto di circolazione, bollato dai vescovi e dal Vaticano, tenuto nascosto per dieci anni con divieto assoluto di traduzione in italiano e altre lingue. Poiché non sembrava abbastanza, al prete è stata chiesta una lettera di scuse, quasi un’abiura. Ma il Friuli è terra ostinata, e ostinati sono i suoi preti. Così Don Bellina - nato nel 1941 e nel frattempo passato a miglior vita nell’anno del Signore 2007 - ha deciso di essere ancora scomodo, e di consumare da morto la rappresaglia per la censura subita.
Non si sa come, ma da qualche tempo il libro galeotto è scappato di mano e ha preso a circolare con evidente imbarazzo della Chiesa di Roma.
L’abbiamo letto, ed è stata una rivelazione. «Leviamoci il cappello e fermiamoci un attimo a pregare per tanta manovalanza sacrificata e assassinata in questi anni e secoli», esordisce Bellina per mettere subito le cose in chiaro. Il termine “assassinata” è una figura retorica, ma siete avvertiti. “Manovalanza” è il modo con cui l’Autore chiama se stesso e i suoi compagni d’avventura. Ma il Nostro chiede di pregare anche per le “maestranze”, i suoi insegnanti, anch’esse “vittime di un sistema che accoppava l’uomo illudendosi di onorare Dio, il quale pure l’aveva voluto a sua immagine come coronamento del Creato”.
Il seguito è la descrizione spietata di un pianeta della noia che clona individui tutti eguali. Una “prigione volontaria” dove si cancella l’uomo per fare un automa. Un posto blindato dove – racconta il prete friulano - è vietato far domande, si vive nel terrore della punizione e si obbedisce sempre e comunque. La castità era l’ossessione dominante: a date fisse il bromuro “arrivava a camionate in tre luoghi classici: il seminario, le caserme e la prigione”. In una tazza di latte in polvere con una roba nera chiamata caffè, “mani sante e discrete” mettevano ogni mattina una dose del sedativo, e i ragazzini in tumultuosa adolescenza non riuscivano a capire come mai, tornati nelle loro povere case, bastasse loro una minestra e una crosta di formaggio per sentire “movimenti di truppe”, mentre invece, dopo gli abbondanti pranzi seminariali, tutto taceva sotto la cintura. Le mani in tasca? Guai. Dovevano star fuori, anche d’inverno, per evitare contatti con parti intime. Per questo - spiega l’Autore - i vecchi preti si fregano spesso le mani: non avendo potuto scaldarsele per anni in seminario, hanno ereditato un freddo endemico e l’istinto di scaldarsi altrimenti. La doccia? Andava fatta alla velocità della luce, sempre per scongiurare soste sulle parti di cui sopra, e per questo dopo cinque minuti qualcuno sparava nei tubi acqua gelata. Così, se qualcuno faceva il furbo, “rischiava non solo la dannazione eterna ma anche la polmonite”. Il corpo? Un male necessario, un nemico contro cui combattere. Il sesto comandamento giganteggiava sugli altri nove e le tentazioni corporali erano tutte codificate. Persino la donna che allatta a seno nudo.
Racconta Gianpaolo Gri, antropologo dell’università di Udine: “Di famiglia indigente, il piccolo Bellina non era tenuto in nessuna considerazione ed è rimasto emarginato e scomodo anche da prete”. I poveri dovevano tacere; lamentarsi era segno di ingratitudine; ogni momento veniva detto loro che la retta non bastava a coprire le spese. Ma l’Autore aveva un altro handicap: era intelligente, e gli intelligenti erano, scrive egli stesso, “i primi a cadere sotto il plotone di esecuzione”. In seminario “avevano paura di essere sbattuti fuori non i più stupidi e addormentati ma i più intelligenti e svegli”.
Dalle 400 pagine emerge un bestiario di personaggi indimenticabili. Come il parroco di Ampezzo, detto Himmler per la sua durezza; Aldo Moretti, che diventa pilastro dell’organizzazione clandestina “Gladio”; o Riccardo della Rovere, che insegna fisica in una catacomba e fuma sputando fumo dalle narici come un dragone. “Nella tradizione carceraria si usa dare ai prigionieri un’ora d’aria... In quella prigione mistica e volontaria che è il seminario, ci era consentito uscire in quel mondo dove (agli occhi dei nostri insegnanti, n.d.r.) regnavano solo brame inconfessabili e porcherie inimmaginabili”. L’intervallo era di un’oretta, i ragazzi potevano camminare solo in fila, due a due, ed era proibito tutto: parlare, correre, ridere, curiosare, fermarsi e ovviamente appartarsi. “Si andava là dove destinava il prefetto. Se lui diceva di fermarsi, bisognava fermarsi anche se si aveva voglia di camminare”. Niente coppie fisse: gli abbinamenti erano decisi dal seminario e il compagno era cambiato ogni tre mesi, per il timore ossessivo di “amicizie particolari”. E che dire dei silenzi imposti per esercitazione ascetica. Non era facile, per degli scriccioli di undici-dodici anni “ancora innamorati della vita”, stare un giorno e talvolta una settimana senza proferir parola. «Loro ci dicevano che si trattava di un atto di grande virtù; a noi sembrava un atto di una crudeltà disumana. E difatti, quando suonava la campanella per avvertirci che iniziava il ritiro, si sentiva in tutto il seminario un grido collettivo e disumano come di bestie in agonia. Dopodiché calava su tutto un silenzio innaturale».
Un mondo che non c’è quasi più, è vero. Ma le gerarchie da esso formate ci sono eccome, incalza Bellina. Esse spiegano una struttura tesa “all’autoconservazione e quindi all’immobilismo”, strada che rischiava di portare la Chiesa nel modo più rapido alla “sparizione autoconsunzione”. Un mondo finito più per esaurimento demografico che per capacità di rinnovamento.
Per formare un esercito di obbedienti, scrive il prete ribelle, venne estirpata da essi l’umanità esattamente “come il dentista, per prima cosa, uccide il nervo”. E non è finita, perché, dopo la “castrazione”, arriva la “clonazione”. Con preti, frati, monache, vescovi, “cardinali e papi che ripetono sempre la stessa solfa centinaia di migliaia di volte”. Che ne sappiamo dei preti? Quanti di essi scompaiono senza lasciar traccia dopo una vita oscura? Chi racconterà mai la loro ultima resistenza nelle periferie dimenticate? «Sparisce il politico, sparisce l’intellettuale, e resta solo il prete a pagare per tutti, a fare da papa e re».
Per questo, scrive Bellina, l’epopea di questi eroi sconosciuti va narrata fin dall’inizio, senza veli, per far capire che essi sono stati in fondo “migliori di quello che avrebbero dovuto essere stanti le premesse”.
Il libro ti porta in un mondo tenebroso fatto di preghiere terribili; orazioni che spaventano, mostrano un Dio che punisce, spiegano in morbosi dettagli la decomposizione del corpo umano, creano il terrore della morte. «Ho visto andarsene tanta gente, preti inclusi - si confida Bellina, che ha fatto il parroco per quarant’anni, - e posso dire che tanti preti non ce l’hanno fatta a morire con dignità, perché tornava fuori in loro quella paura di Dio che gli era stata instillata come veleno negli anni più sereni della vita».

Come “Padre padrone” di Gavino Ledda, anche “La Fabbrica dei preti” è un’opera spietata, destinata a sollevare polemiche, ma anche un lavoro di robusto vigore morale, figlio ruspante della provincia italiana dimenticata. Talvolta “eccessivo”: ma certamente su cui riflettere. Una parte delle attuali gerarchie vaticane sono figlie di questo mondo. E certe chiusure della Chiesa sotto il pontificato di Ratzinger diventano più comprensibili alla luce di questo libro.

sabato 14 marzo 2009

LA FABBRICA DEI PRETI: ULTIMO CAPITOLO

Conclusione
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Lettura personale
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Sono arrivato alla fine di questa mia rivisitazione della fabbrica dei preti. È chiaro che si tratta di una mia esperienza, di una mia visione, di una mia valutazione. Di più e altro non posso fare o dare. Dunque potrebbe trattarsi di una fatica inutile, di una introspezione dolorosa ma senza costrutto, perché troppo personale e di parte. In questo però sono aiutato da un fatto che è anche la disgrazia del seminario e di tutte le strutture della Chiesa: l’immutabilità. Così anche l’esperienza di uno può essere moltiplicata per 100 e per mille. Mi sono domandato tante volte la ragione per cui là dentro non cambiasse nulla di sostanziale. O perché non vogliono, come dice qualcuno, o perché non possono, come sembra più giusto. Perché la Chiesa è ossessionata dalla questione dell’autoconservazione, per paura di non reggere il confronto con i cambiamenti radicali e impietosi del mondo e di essere spazzata via dal turbine della modernità e della post modernità e della secolarizzazione galoppante, corrosiva. Non sa che, pensando soltanto a conservarsi, ha scelto la strada più dritta per la sparizione e l’auto consunzione. Questa immobilità della Chiesa fa in modo che il seminario del ‘900 sia poco differente da quelli del ‘700 e del ‘600 e che il seminario di Udine sia sullo stampo stesso di quelli di Trento, di Brescia e di Caltanissetta. Sicuramente sono più gli elementi di colleganza che quelli di differenziazione. Questo perché dipendono tutti dalla stessa struttura centralizzata che si rifà sempre alle stesse regole e principi. Così il mio seminario diventa il seminario della gran parte dei preti che sono ancora nelle parrocchie del Friuli e della maggior parte dei preti di tutti i tempi e di tutti i luoghi. E questo mi dà un po’ di coraggio e di speranze in più riguardo all’utilità del mio lavoro.
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Salvare la memoria per salvare la storia
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Ho scritto per rivisitare il luogo della mia (de)formazione clericale anche perché stiamo vivendo una accelerazione così grande e talmente generalizzata che si fa fatica a sapere dove ci si trova. Tanto più si fa fatica a mantenere la memoria del mondo da cui si proviene o ad individuare il sentiero che ci sta davanti. Mai come oggi la memoria è la salvezza della vita. Perdendo la memoria di un fatto, bello o brutto, fai sparire il fatto stesso, che non è più un fatto ma un nulla. E’ ciò che stanno tentando di fare da qualche parte della Germania con i campi di concentramento. Negarli per farli sparire dalla memoria e subito dopo anche dalla storia. Così non sono mai esistiti e si può tornare a tentare la stessa infausta e disgraziata avventura che disonora l’uomo, la terra e Dio. Per questo, diceva Primo Levi, devo scrivere. Perché verrà un momento e un tempo in cui io stesso dubiterò di avere vissuto tale esperienza e dunque dentro di me morirà alla parte più importante di me. Subito dopo la guerra, quando tornavano dal fronte o dalla prigionia i soldati rimanevano in piedi tutta la notte e tutto il giorno successivo a raccontare ciò che avevano vissuto. E tutti erano lì a far loro mille domande e loro a dare mille risposte. Dopo una settimana, la curiosità era calata e si poteva parlare di queste tragedie soltanto per un secondo, per non disturbare quelli di casa, soprattutto la gioventù, che aveva altri pensieri per la testa. Tanto più che la vita doveva andare avanti e non si poteva stare ogni sera a sentire quella e sempre quella. Dopo un anno, se il soldato, il deportato arrischiava di aprire di rubinetto dei ricordi, parlando dei suoi patimenti, e dei suoi compagni caduti, veniva sopraffatto e obbligato a tacere. Allora si ritirava in sé stesso, tentando solo ogni tanto qualche parola con quelli che avevano vissuto la stessa esperienza e patito la stessa tragedia. Con loro è morto il loro mondo e tanto dolore si è disperso nel fluire del tempo che passa.
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Rimozione generale
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La stessa cosa capita con il seminario. I corridoi sono deserti o vi passeggia altra gente, dal momento che è stato affittato. Ti avvicini ma non hai né la possibilità né la voglia di entrare. E anche se sbirci dentro, stenti e ritrovare nel libro della memoria tutta la gente che camminava, studiava, pregava, tribolava, e faceva tribolare. Così non torni più, non parli più, non pensi più. I preti sono diventati tutti più vecchi e demotivati e sono carichi di mille incombenze e poi non hanno voglia di parlare di cose tanto lontane, rimosse e sotterrate per sempre. Si è chiuso il seminario ma anche il discorso sul seminario. È sparita la struttura; è sparita la memoria; è sparito tutto. Dunque non è mai esistito.Se queste riflessioni-memorie-confessioni non giungeranno nelle mani di nessuno, non mi importa. Sono arrivato a un’età nella quale è permesso un sano egoismo. Ho scritto per me, per il gusto di fare luce su un luogo e un tempo importante della mia vita.
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Tutto è grazia
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L’anno scorso hanno fatto un convegno su Auschwitz e la domanda tremenda sulla bocca di tutti è stata: “Dov’era Dio?”. ma un rabbino ha rovesciato la questione e si è domandato: “Dov’era l’uomo?”. Non voglio chiudere il mio diario sul seminario in maniera così traumatica e chiaramente sproporzionata. Perché in seminario Dio c’era. Anche troppo e a volte a sproposito. Forse mancava l’uomo. A distanza di anni, con il cuore distaccato e l’anima in pace, preferisco finire con le parole del “Diario di un curato di campagna” di Georges Bernanos: “Tutto è grazia”.
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Basagliapenta, 29 giugno 1999- XXXIV di ordinazione e XVII di ministero a Basagliapenta.
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Pre Beline
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(Traduzione di Piero Villotta)

domenica 21 dicembre 2008

AI FRIULANI CHE CREDONO

Ai friulani che credono


SPUNTERÀ' PER LA CHIESA UN NUOVO GIORNO?

Incarnata come Cristo nella storia dell'uomo, la chiesa vive oggi in Friuli un momento particolarmente, ma bello ed importante. Si trova infatti in' una situazione unica, in cui, con l'aiuto di Dio, potrà fare una esperienza valida e nuova ed aprire una strada non solo per sè ma anche per quelle chiese che, con il passare del tempo, potranno trovarsi in una situazione analoga.
Per questo, come gruppo di preti e laici della diocesi, sentiamo la necessità di dare una nostra valutazione ed interpretazione dei fatti che stiamo vivendo perchè nella chiesa di Dio siamo tutti corresponsabili, a parità di diritti e doveri.
Con questo documento intendiamo offrire un aiuto a tutti gli uomini di buona volontà ed anche ai nostri superiori. In realtà sentiamo che i vescovi hanno le mani ed i piedi legati, sia a causa del centralismo romano, sia per la loro paura della pubblica opinione, sia soprattutto a causa di quel castello ecclesiastico che l'autorità si è costruita lungo i secoli per dominare e che ora li tiene prigionieri. Si compie così la parola del salmo: "Cade nella fossa che ha fatto" (Sal 7,16).
Per questo, da fratelli, diciamo con estrema franchezza ciò che pensiamo; non crediamo con questo di far loro del male, ma siamo anzi convinti di dar loro una mano e di far loro del bene.

UN NUOVO VOLTO DELLA CHIESA

Guardando i segni dei tempi e dei luoghi, pensiamo anzitutto che sia giunto il momento di dare risposte nuove alle nuove situazioni. Abbiamo ben presenti le parole di Cristo: "Nessuno mette un pezzo di stoffa grezza su un vestito vecchio, perchè il rattoppo squarcia il vestito e si fa uno strappo peggiore. Nè si mette vino nuovo in otri vecchi, altrimenti si rompono gli otri e il vino si versa e gli otri van perduti. Ma si versa vino nuovo in otri nuovi, e così l'uno e gli altri si conservano" (Mt 9, 16- 17). Questo brano di Vangelo, a nostro avviso, non è stato recepito interamente dal Sinodo diocesano e soprattutto dal nuovo piano di distribuzione del clero, perchè entrambi danno più di una volta risposte sorpassate ai problemi dell'oggi.
Siamo convinti che un volto di chiesa, difeso dall'autorità ad ogni costo, è destinato a scomparire. Infatti nella sana mentalità del popolo di Dio non ha più alcun peso la religione della legge, della struttura, del tempio, del potere, dei partiti, della efficienza, del dominio sulle persone. E questo lo consideriamo nettamente positivo.
Non si tratta di fondare un'altra chiesa, ma di rischiare una nuova lettura della chiesa di Cristo; non si tratta di compiere miracoli, ma di offire segni di libertà e di amore nel cercare la strada dello Spirito e del popolo. Una chiesa di popolo e di Vangelo, di ultimi, di servizio del mondo, dove i valori umani diventano religione; una chiesa con il volto umano, semplice, libero, divino di Gesù Cristo; non fatta sul modello e ad imitazione dei potenti di questo mondo ma alternativa, e che, mescolandosi ai piccoli, sa vedere e conservare gelosamente ciò che l'Eterno Padre semina senza parsimonia anche al giorno d'oggi.
La struttura ecclesiastica deve demitizzare la sua organizzazione e smettere una buona volta di lavorare per la propria autoconservazione. Deve superare la legge che conduce al peccato e la smania di essere a posto con gli organigrammi ed i quadri. È preferibile perdere tutto questo anzichè perdere il Vangelo e la gente.

LA DISTRIBUZIONE DEL CLERO

Dietro al piano regolatore diocesano, che prevede per un prete un numero sempre più grande di paesi, non riusciamo a vedere le coordinate teologiche e pastorali che hanno suggerito questo determinato tipo di scelte.
Il Vangelo, il rispetto delle persone e della dignità dei paesi richiedono almeno questo: rifondare un modo di fare il prete che sia anche umano.
A due secoli dalla rivoluzione francese, anche il prete va rispettato come persona e non può essere sacrificato all'efficientismo della struttura.
Da parte nostra ci impegniamo, quando arriverà il nostro turno, a non accettare la responsabilità di un nuovo paese solo per carenza di preti o per questione di semplice obbedienza. Cercheremo di valutare la situazione per rispondere secondo coscienza, e non solo secondo criteri organizzativi, alla domanda che ci verrà fatta, giungendo, se lo riterremo opportuno, all'obiezione di coscienza. E questo per aiutarci, nella comune responsabilità, a studiare e a trovare nuove strade.

IL FONDAMENTO DELLA CORRETTA SPIRITUALITÀ DEL PASTORE

Crediamo che la pastorale consista. nei nostri paesi, in un rapporto umano fra il prete portatore del mistero della sapienza di Dio e la vita carica di problemi della gente.
Il prete è nel paese l'uomo della amicizia umana e della sapienza divina.
Per questo riteniamo umiliante, errata e dannosa la legge che prevede il cambiamento di parrocchia ogni nove anni.
La pastorale non è solo o soprattutto cultura teologica, scuola di catechesi e sacramentalizzazione, ma consiste prima di tutto, per un prete o operatore pastorale, nell'avere con la gente l'animo di Cristo.
Per un prete che è preso da Cristo, tutto diventa secondario: le leggi, i sinodi, le prescrizioni e le opere, perchè per lui è prioritario avere gli amori e le libertà di fondo di Cristo e di essere in sintonia con Lui e con la gente.
Questo fatto, che Cristo e la gente vengono prima della efficienza e della istituzione, è il fondamento della corretta spiritualità del pastore.

FIDUCIA NELLA GENTE

Ogni comunità di paese è chiesa; ogni comunità ha al suo interno lo Spirito che l'anima e che le dà, con la parola di Dio, i doni ed i carismi per essere popolo di Dio e sacramento e segno di salvezza nella vita odierna. Pertanto:
Vogliamo prima di tutto rispettare il paese e la gente, camminare insieme, senza mettere il paese nè nelle mani dei
movimenti, nè nelle mani degli estranei e dei forestieri, nè nelle mani dei nuovi catechisti che vengono sfornati dal centro.
Vogliamo mettere al centro della nostra attenzione la gente, accompagnandola con fiducia, in modo che il nuovo volto che la chiesa prenderà, quando piacerà a Dio, non sarà quello di una controriforma imposta dall'alto, ma quello che la gente sente più connaturale, come quelle chiesette che la gente sente proprie perché costruite con il suo sudore e non con il contributo del dopo terremoto.
Chiediamo che là diocesi studi, per i paesi senza prete, delle soluzioni complementari ed alternative, senza ammazzare di superlavoro e di disperazione i pochi preti rimasti.
Far girare continuamente un prete per più paesi non risolve assolutamente nulla, ed impedisce alla gente di maturare.
La diocesi valorizzi ed aiuti i preti che tentano nuove esperienze; rinunci ad uno stampo unico standardizzato per trovare le soluzioni più opportune caso per caso ed in modi diversi e differenziati.
Soprattutto abbia fiducia nella gente e le consegni la parola di Dio, la Bibbia, e la parola di Dio diventi la forza che rinnoverà la comunità stessa.

LA SCELTA PREFERENZIALE DEI PAESI PICCOLI

I paesi piccoli devono essere tenuti in palmo di mano, sia per la raccomandazione di Gesù di mettere al primo posto gli ultimi, sia per i valori che ancora custodiscono (in particolare i rapporti umani, condizione prima ed indispensabile per parlare di comunità cristiana), sia perchè è al loro interno che si potranno fare esperienze di una nuova pastorale e di comunità cristiane differenziate.
Un piano pastorale che parta dagli ultimi non può, in Friuli, non mettere in primo piano i paesi piccoli, per servirli meglio. In Friuli la scelta preferenziale dei poveri diventa la scelta preferenziale dei paesi piccoli.
Non vorremmo che, in nome di una logica mai messa in discussione, si continuasse a pensare che, "per addobbare l'altar maggiore di un duomo è lecito impoverire qualsiasi altro altare"; meno ancora quando, come nel nostro caso, non si tratta di altari ma di comunità.
Abbiamo tanto bisogno, come chiesa, di metterci sulla strada della semplicità: nei discorsi, nella liturgia, nei segni, nel catechismo, nella scelta dei responsabili, nei rapporti con la gente, e questo può venirci solo da una conversione ai "semplici" del Vangelo, ai piccoli dei paesi.
Si tenga conto di tutto ciò che di valido un paese racchiude, nella fiducia che ogni comunità possa riuscire ad esprimere i propri responsabili.

PRETI NUOVI - COMUNITÀ NUOVE

Nella diocesi ogni parroco presenti quelle persone che egli ritiene adatte, per inclinazione e capacità, a fare il prete. Oggi abbiamo tanta gente preparata come istruzione, impegnata come lavoro, realizzata come famiglia. Si tratta di trovare il modo di formarli sui fondamenti della dottrina cristiana, di allenarli alla predicazione ed al contatto con la gente, di dar loro !'incarico ufficiale, di farli lavorare, di consegnar loro una chiesa, di metterli assieme perchè imparino a conoscersi e ad amarsi ... e poi farli preti.
Si metta fine ad una mentalità che confonde il prete con un determinato modello di prete: lo Spirito Santo non si è fermato al concilio di Elvira (a. 300 c.).
Accanto alla formazione del prete celibe, si incominci a pensare ai giovani che desiderano diventare preti con una loro famiglia.
Dare responsabilità in diocesi ai preti che si sono sposati e che desiderano tornare ad esercitare il ministero.
Viviamo in tempi in cui ogni occasione persa ed ogni briciola sprecata sono un delitto contro lo Spirito Santo.


LA CHIESA FRIULANA PUÒ AVERE UN FUTURO

La storia del Friulici insegna che il nostro popolo ha saputo tante volte inventare le forme più adatte, in armonia con i tempi ed i luoghi, per vivere in maniera responsabile e comunitaria la fede, la speranza e la carità che vengono dal Vangelo; basti pensare alle "vicinie" del Medioevo, alle confraternite del '600, alle istituzioni cattolico-sociali di questo secolo. Ciò che è accaduto una volta può ripetersi anche in avvenire se avrèmo il coraggio di offrire al Friuli un nuovo volto di chiesa: la chiesa della parola di Cristo, delle piccole comunità che riescono a far fiorire la loro ricchezza di doni e di ministeri, di una liturgia popolare e locale. Non più una chiesa clericale-monarchica, ma una chiesa ministeriale.
"Il frutto dello Spirito è l'amore" (GaIS, 22) dice S. Paolo; ed in un'altra occasione scrive: "Dove c'è lo Spirito del Signore c'è libertà" (2 Cor 3,17).
Lo Spirito Santo ci dia amore e fiducia, libertà di seguire Gesù Cristo, possibilità di dialogo vicendevole, e per la chiesa in Friuli ci sarà un futuro.

Cjampei di Ravascletto, 13 settembre 1988

(seguono le firme)

(Traduzione dall'originale in lingua italiana) .

Stampât in propri.
Grop di studi Glesie Locâl, Canoniche di S. Jacum, Place San Zuan 23 - 33030 Ruvigne Ragogna (Ud).

domenica 23 novembre 2008

CIRINT LIS OLMIS DI DIU

Cirint lis olmis di Diu (Cercando le orme di Dio) è un libricino, (praticamente un tascabile di cento pagine) scritto da pre Toni (al secolo don Pietrantonio Bellina), un prete come si potrebbe già intuire dal titolo, ma non un prete qualsiasi come ce sono tanti, prodotti con lo stampino “made” in seminario!
Volendo tracciare una brevissima nota biografica, pre Toni nasce durante la seconda guerra mondiale (precisamente il 22 febbraio 1941) in un paesino storico, che balzerà agli onori della cronaca mondiale, suo malgrado, a seguito dei disastrosi terremoti del 1976. Pre Toni vive una misera ma dignitosa infanzia, comune alla maggior parte dei friulani, post bellica. A undici anni, entra in seminario, seguendo quella che sente essere la sua vocazione, non senza provocare disappunto nel padre. Seguono gli anni del seminario, in cui si metterà in luce soprattutto la sua indole ribelle, non incline a seguire le regole che vengono imposte dall’alto. Nonostante ciò il 29 giugno 1965 viene ordinato prete e ha inizio la sua carriera professionale. Dopo aver trascorso tre anni da cappellano a Codroipo, vince il concorso (cui in seguito scoprirà d’essere stato l’unico partecipante) per una parrocchia rimasta vacante, ad Arta, nelle frazioni di San Martino di Rivalpo, Valle e Trelli. Insomma il nostro autore diventa un carnico d’adozione. E s’innamora di questa gente e questa terra. Oltre a essere prete è anche maestro elementare, con la passione per la scrittura. La sua salute è sempre stata piuttosto cagionevole, e proprio durante un periodo di convalescenza, inizia a tradurre, per scherzo, le fiabe di Esopo e Fedro, in friulano. Ha così inizio la sua produzione letteraria, prevalentemente in lingua friulana, ma con qualche eccezione anche in italiano. Nel 1982 viene trasferito in pianura, vicino a Udine, diventa parroco di Basagliapenta..
Questo libretto è il il frutto di una raccolta di scritti già apparsi sul settimanale diocesano “La Vita Cattolica”. E’ l’autore stesso a narrarci la sua genesi. Siamo oramai giunti al 1993, pre Toni, ha 52 anni, quindi è persona matura, ma la sua verve ribelle, non l’ha abbandonato, anzi forse si è acuita. Il direttore del giornale, intuendo le potenzialità comunicative di pre Toni, lo invita a scrivere una rubrica, lasciandogli carta bianca, a patto che “non esageri”. La prima “Olme” viene pubblicata l’ 11 novembre 1993, ne seguiranno moltissime altre, fino all’ultima, che sarà quella del 21 aprile 2007. pre Toni lascerà questa terra nella notte fra il 22 e il 23 aprile 2007.
Il libro raccoglie le prime 41 “olme” che ha scritto. Praticamente sono il frutto delle sue osservazioni, considerazioni, su ciò che colpisce il suo interesse e quindi la sua fantasia, durante la settimana. Si tratta di un diario, in cui mette a nudo i suoi pensieri, la sua anima. Parte dalle piccole cose, dai piccoli accadimenti quotidiani, per poi giungere a riflettere sulle grandi cose della vita, della storia. Si parte da un piccolo orizzonte, racchiuso in un fazzoletto di terra, in un orto, per poi ampliarsi e spalancarsi sul mondo, sull’universo e giungere fino alle stelle. La bellezza della sua fede, sta nel riuscire a cercare e trovare Dio nelle piccole creature del cosmo, che la maggior parte delle persone guarda distrattamente e non vede. Il suo diario, segue il filo dello scandire temporale del calendario liturgico. Il diario scolastico, inizia settembre e termina a giugno. Le agende degli adulti iniziano il primo gennaio e terminano il 31 dicembre. Il “diario” di un curato di campagna, inizia con l’Avvento per quattro domeniche, fino a giungere al Natale. E poi c’è la Madonna Candelora, il 2 febbraio “giornata delle vite consacrate”, la Quaresima, la Pasqua, il 25 aprile la rogazione di san Marco. Maggio il mese della Madonna e la festa dell’Ascensione, con il “bacio delle croci” a San Pietro in Carnia. E Pentecoste con la discesa dello Spirito Santo, il Corpus Domini e poi finalmente il tempo “ordinario”, in cui non ci sono grandi feste da celebrare. Il 24 giugno la Chiesa ricorda San Giovanni Battista, per pre Toni, un santo strambo, la voce che grida nel deserto, per cui nutre gran simpatia e nel libro ci spiega il perché. A luglio non si lascia sfuggire l’occasione per una critica al “Meeting giovani” organizzato dalla diocesi che si tiene a San Giovanni al Natisone. Giunge a scrivere che sarebbe preferibile per i giovani andare a mangiar salsicce e a ballare a sagra in qualche paese. Per sant’Ermacora e Fortunato, patroni di Udine, il 12 luglio, ci parla delle radici aquileiesi della Chiesa friulana. Poi ci racconta la storia di sant’Alessio, un esempio che dovrebbe ispirare le nuove generazioni friulane. Un saluto molto toccante è quello indirizzato a Bepi, morto suicida, a cui un tempo la Chiesa, avrebbe negato anche i funerali. E poi le sue considerazioni sulle “radiazioni” benefiche dell’altare durante la messa. La Madonna dell’Assunta, per la maggioranza delle persone il Ferragosto. Considerazioni sulla religiosità dei suoi fedeli e sull’ipocrisia della Chiesa in materia di sessualità. Per concludere una preghiera alla Madonna. Perché questo libro potrebbe piacere anche a un ateo? Perché pre Toni è una voce critica, che difende l’uomo e non Dio, che non ha bisogno d’essere difeso dall’uomo. Perché è più vicino all’uomo comune, che magari diserta le funzioni religiose, ma che anche involontariamente onora Dio, che a chi per professione ha scelto la carriera ecclesiastica. Lettura sconsigliata a bigotti e benpensanti: potrebbe urtare le loro sensibilità e mettere in discussione le loro certezze.


PATRIZIA VENIER
Udine, ottobre 2008

domenica 9 novembre 2008

SIOR SANTUL

Sior Santul (letteralmente: signor Padrino) è l’appellativo con cui, solamente in Carnia, viene ancora oggi indicato e chiamato il parroco del paese. Questo termine racchiude in sé un profondo significato poiché il parroco, battezzando tutti i bambini del paese, diviene automaticamente SANTUL (cioè Padrino) di tutti e, per diversificarlo dal padrino personale di ciascuno, viene appunto chiamato SIOR SANTUL.

Su inconsapevole e benevola istigazione dell’amico Marino, ho riletto (per la terza volta, come accade solitamente per i libri che emozionano) questo primo lavoro di pre Antoni Bellina, pubblicato 30 anni fa, nel 1976, alcuni mesi PRIMA del terremoto del 6 maggio, quando l’autore non aveva che 35 anni.

Pur se ancora acerbo nello stile, che avrà completa maturazione negli anni seguenti, pur se appesantito da inutili ripetizioni, questa opera (che a mio avviso resta la più fresca e genuina di questo autore) racchiude già in nuce tutta la filosofia ed il pensiero di pre Toni Beline, che saranno via via riproposti e approfonditi successivamente nelle oltre 100 altre pubblicazioni, che la penna fantasiosa e assai prolifica di pre Toni ha finora partorito e continua a partorire incessantemente. Vi è perfino (pag. 49 e pag. 65) il preludio al suo lavoro più conosciuto e contestato, pubblicato poi nel 1999, “La fabriche dai predis” (già presente nella nostra biblioteca), che è una singolare autobiografia nella quale pre Bellina, prendendo lo spunto da fatti personali, fa l’autopsia ad un cadavere (il seminario) riesumato dopo 30 anni dalla sua morte (avvenuta per consunzione propria e conseguente implosione). Caro pre Toni, quelle cose sul Seminario, dovevi scriverle prima, quando il malato era ancora vivente e forse (?) poteva essere ancora salvato; un’ autopsia eseguita a 30 anni di distanza dal decesso, non è mai troppo attendibile e dà spesso risultati fuorvianti o contradditori…

Questo libro invece, scritto in lingua friulana, è la biografia di don Luigi Zuliani (1876-1953), un prete carnico, che restò SIOR SANTUL nel paese di Cercivento per ben 53 anni, dal 1900 al 1953! Una vita spesa interamente a favore di un paese, fiaccato da due guerre, dal fascismo, dalla miseria, dall’ emigrazione… La penna di pre Toni sa cogliere (pur non avendolo egli conosciuto personalmente) le varie sfaccettature di SIOR SANTUL, i suoi aspetti esaltanti e i suoi limiti, i suoi tics e i suoi sbalzi d’umore, la sua totale generosità e la sua cronica povertà… Pre Toni sa scrivere in un friulano squisito, che piace fin da subito, facile, piano ma ricco di significati e immediate emozioni: si gusta davvero lo scrivere di pre Toni, che sa mirabilmente estrarre dalla nostra lingua madre i termini più adeguati (e a volte ormai desueti) per esprimere sentimenti, giudizi, perplessità, stupore, sdegno, allegria…

La grande figura di SIOR SANTUL emerge senza aureola e senza volute d’incenso ma non per questo è meno affascinante e meno coinvolgente: proprio perché è umanamente vera, questa figura di prete appare oggi molto più concreta e solida di tante altre agiografie di preti (e vescovi) che furoreggiano in questi tempi di fiction. Il SIOR SANTUL di pre Toni è un prete vero, reale, che magari va a rubare le mele ai ricchi per darle ai poveri, che magari non paga i debiti fatti per acquistare regali ai bambini, che magari non paga la bolletta della luce adducendo che l’acqua che muove le turbine della SECAB è mandata da Dio anche per lui, che magari ama il vino e non disdegna la compagnia allegra, che magari teme la Madonna Missionaria con la sua corte di mangjons… eppure SIOR SANTUL ci resta nel cuore per sempre con la sua disincantata sapienza, con la sua bonaria semplicità, con la sua fede di bambino, con quel suo terrore dei vescovi-funzionari, freddi come il naso del gatto e lontani dalla gente e dai preti…

Oltre alla splendida biografia di questo SIOR SANTUL, pre Toni Bellina ci offre nelle prime 50 pagine del libro un interessantissimo antipasto, che riguarda l’AMBIENTE in cui si muove il romanzo-biografia. Tra questi capitoli iniziali, meritano senz’altro un interesse i seguenti:

- LA CHIESA E LA SCUOLA in Carnia, dove vengono tratteggiati per sommi capi i lineamenti del problema “SCUOLA” come venne vissuto e realizzato in Carnia nel ‘700 e ‘800, quando la Chiesa era l’unica sostenitrice della istruzione del popolo, poiché lo Stato non esisteva oppure era del tutto assente su questo versante. Vi si racconta dei capellani-maestri, degli ispettori-monsignori…

- LA FAMIGLIA viene raccontata sul modello pre-terremoto 1976 e fa riferimento al tipo di famiglia patriarcale in auge in Carnia fino agli inizi degli anni ’70: molto significativi anche gli spunti profetici inseriti che vi si trovano.

- La RELIGIONE in Carnia ha da sempre una venatura consistente di luteranesimo che la rende diversa e più personale rispetto a quella del Friuli e del Veneto, più bigotta, barocca e preote

- Il CLERICALISMO dei preti è il capitolo più singolare e sincero di pre Toni, in cui vi sono raccolti tutti i temi della successiva attività di scrittore: perché esiste il clericalismo dei preti? E quindi perché è nato poi l’anticlericalismo? Sono temi questi molto cari a pre Toni e ancora oggi costituiscono, a ben vedere, l’architrave di tutta la sua vastissima produzione letteraria in cui traspare sempre questa ansia genuina, mai appagata, di volere eliminare il CLERICALISMO dei preti, causa di tantissimi mali per il Popolo di Dio. Pre Toni ama comunque profondamente la sua Chiesa “casta et meretrix”, la vorrebbe però meno meretrix e più casta, più genuina e meno burocratica, più “accanto” e “nel” popolo, che “sopra” il popolo. Di questo si angustiava Pre Toni Beline nel 1976, a 35 anni. Di questo si angustia oggi, nel 2005, a 64 anni!

venerdì 18 luglio 2008

DAL PROFONDO

....

Prima di lasciarci ci furono gli ultimi accordi per la presentazione di Palmanova che era programmata per cinque giorni dopo e perfino per il progetto di una gita in Carnia nei suoi paesi tanto amati.

Poi noi l'abbiamo fatta ugualmente quella gita...

Quel giorno durante la nostra visita non fece trasparire nessuna preoccupazione, sicuramente per non allarmarci, ma evidentemente c'era qualcosa nell'aria, se quasi sempre negli ultimi tempi al telefono mi diceva “ o soi strac”, se anche nel libro intervista del giornalista Marino Plazzotta si legge questo passaggio premonitore : “ Se dovessi chiudere ora , chiuderei bene. Con le poche briscole che ho avuto credo di aver fatto una partita discreta. Per il resto non faccio progetti. Non ho né la forza , né la lucidità”.

Se infine aveva confessato al vescovo Battisti, che era stato a trovarlo nel suo ultimo ricovero, di sentire la morte vicina.

Poi arrivò quella telefonata con la tragica notizia della sua morte che mi lasciò addolorato e sconvolto...

In verità la sua morte ha fatto sì che sapessimo dai giornali quasi tutto della vita , delle opere, della sua personalità straordinaria. Di questo prete scomodo che viveva appartato , quasi emarginato, ma che aveva continuato a scrivere, a pensare, a svolgere la sua missione di educatore di anime, che ha sempre insegnato a essere liberi e responsabili pagando fino in fondo il prezzo di questa libertà.

In quei giorni sono arrivati anche, magari tardivi, elogi da tutte le parti, come tardi è arrivato l'annuncio che era quasi alla fine l'iter per la concessione della laurea honoris causa, e della presentazione del suo messal al Papa da parte del vescovo Brollo, presente a Roma proprio nei giorni della sua morte.

Una cosa è certa: il Friuli è più povero, come è stato scritto.

Perchè don Bellina, oltre che sacerdote, è stato scrittore, intellettuale, giornalista, e naturalmente accanito infaticabile friulanista. E' stato l'anima di Glesie Furlane,l'associazione che ha nel suo statuto come scopo principale di andare alla scoperta delle radici culturali e religiose del Friuli.

Ha diretto per moltissimi anni la rivista “ Patrie dal Friul” che si è sempre battuta per l'autonomia. In un bell'articolo sul Gazzettino, in occasione dei 60 anni del periodico nato nel 1946, Bellina concludeva dicendo : ” Nonostante i risultati deludenti de semence butade, noi continuiamo a seminare, a tenere accesa la fiamma dell'autonomia. Siamo convinti che nel cuore dei friulani resta sempre questo desiderio di autonomia, questa coscienza di una identità e alterità. Si tratta di continuare sperando nelle sorprese della storia e nell'intelligenzanostra gente”.

Ma Bellina è stato soprattutto scrittore e in particolare grandissimo prosatore ed ha scritto moltissimo...,, e naturalmente sempre esclusivamente in friulano, come in friulano celebrava la messa e le funzioni religiose nella sua parrocchia. E' quasi impossibile citare tutti i suoi libri: una volta mi aveva scherzosamente confessato di considerarsi a questo proposito un incontinente.

Ne “La fatica di essere prete” il bellissimo libro intervista di cui poi vi parlerà Marino Plazzotta Bellina uscito anch'esso subito dopo la sua scomparsa, racconta di aver cominciato a scrivere per caso, quasi per scherzo traducendo a voce ad alcuni amici preti le favole di Fedro dal latino in friulano. Era rimasto colpito che quelle favole fossero belle anche in friulano e così le tradusse tutte e ne venne fuori il suo primo libro: “Lis flabis di Fedro voltadis pai Furlans”, nel quale ad ogni favola aggiunse anche un'attualizzazione sulla nostra società e sul nostro tempo.

Una delle opere che fece più clamore suscitando risentimenti e dure reazioni tanto da venire ritirata dalle librerie è stata “ La fabriche dai predis”, della quale Proprio ultimamente si è tornato a parlare e a discutere a causa di una possibile ristampa in una traduzione in italiano..

Ma il suo nome resterà indubbiamente legato alla traduzione della Bibbia.

Un sicuro lasciapassare per il Paradiso l'ha definito il vescovo Brollo. Si può ben dire che la sua vita sia stata segnata da due fondamentali esperienze profondissime e laceranti: le malattie e la Bibie...

Spesso raccontava che quando arrivò all'ultimo versetto scoppiò in un pianto dirotto probabilmente anche nella consapevolezza di aver raggiunto uno storico traguardo per tutto il Friuli e per la sua Chiesa.

L'ultima sua opera... uscita poco più di un mese prima della sua morte... è “ Storie Sacre” , con la quale lui che diceva di non essere molto portato per la poesia ci regala in rima alcuni episodi della Bibbia e del Vangelo che si leggono con un piacere gioioso per la genuinità, la semplicità il candore dei versi che escono spontanei da suo cuore

Tutti hanno sempre parlato di prete scomodo, controcorrente e anche di carattere scorbutico e difficile. Pochi hanno evidenziato la sua tenerezza, la sua grande umanità, la sua capacità di ascoltare, assolvere, rispettare, di proporre una religione fatta di amore , di accoglienza, vicina alla gente. Tutte cose che ho potuto constatare di persona nel mio pur breve sodalizio con pre Toni. Come dimenticare il suo lato romantico, il suo amore per la natura, per gli animali

( al suo funerale nella cappella lungo la navata si sentiva cinguettare il canarino che era solito portare in chiesa durante le funzioni), o ancora la capacità di commuoversi ascoltando la sua musica preferita o l'affetto e la simpatia che aveva per i bambini ?

Certamente la sua vis polemica innata ( si è letto anche il termine enfant terrible) , sicuramente il suo tono, il suo linguaggio duro , schietto, senza alcuna preoccupazione di addolcire termini e giudizi può forse irritare e scandalizzare , come spesso è successo.

Ma a una lettura attenta e non superficiale si percepisce “ Il respiro vasto , profondo con cui l'autore guarda l'insieme della realtà della fede e della prassi di fede nella storia” , come sottolinea molto bene Cristina Bartolomei, docente di filosofia morale all'università di Milano nella prefazione a un'altra delle opere più sofferte e compiute

Et incarnatus est” , pubblicato nel 2005.

Scrive ancora la professoressa: “ Le note di fondo sono gli affetti, la passione, il travaglio, la profonda fede e pietà, l'amore grande alla Chiesa, alla storia di fatica e di liberazione dell'umanità, ai piccoli e agli ultimi, alla grande tradizione aquileiese, radice della Chiesa friulana”.

E per quanto riguarda la sua forza e libertà di pensiero, la sua modernità la sua visione rivoluzionaria della Chiesa voglio citare come esempio la questione del sacerdozio alle donne, tema che affronta proprio nell' “Et incarnatus est”, ma che riprende anche nell'intervista al giornalista Plazzotta.

Ecco cosa scrive Bellina: “ Essendo la religione un qualcosa che parte dal cuore e dal sentimento più che dalla testa e dalla razionalità, la donna è tanto più adatta dell'uomo ad avere una parte portante nella religione.

Io preferirei avere per prete una donna perchè la religione è più femminile più consolatrice... in che dì che la femine cu le so feminilitat e sensibilitat e podarà celebrà i misteris e proclamà la paraule e sarà une grande zornade! “.

Venendo al “De profundis” non starò a entrare nei dettagli di come è nato questo progetto né delle circostanze casuali anche se in parte ricercate che ne sono state all'origine, che comunque potrete leggere nella mia presentazione al libro.

Mi preme invece ribadire che tutte le fasi, i momenti , i passaggi sono avvenuti col consenso, la collaborazione, i consigli e , ci tengo a dirlo, gli incoraggiamenti di pre Toni.

Voglio precisare questo perchè mi rendo conto che probabilmente questa operazione può aver suscitato una certa sorpresa se non addirittura qualche perplessità, visto che nonostante i miei oltre quarant'anni di permanenza in Friuli sono a tutti gli effetti considerato giustamente un veneto, né va trascurata la mia laicità di pensiero, che del resto pre Toni non mi ha mai fatto pesare, e inoltre non si può dimenticare che è la prima volta che si traduce in italiano un libro di Bellina.

Rispetto alla mia capacità di destreggiarmi col friulano ( ho scoperto comunque che anche molti friulani stentano a leggere nella loro lingua) voglio dire che il friulano ho imparato a conoscerlo dai miei familiari in casa e dai tanti friulani che ho frequentato. Mi ritrovo a usare in modo del tutto naturale quel saluto mandi -uno dei più belli che esistano, comunque si voglia interpretare: stai bene a lungo o rimani con Dio.

Ed ho conosciuto e letto anche il friulano letterario: l'ho apprezzato nei versi dei miei amici Maria Fanin e Galliano Zof, nell'opera fondamentale “ I Turcs tal Friul” di Pasolini, nella raccolta di poesie “Libers di scugnì là” di Leonardo Zanier, nei poemi grandiosi di Domenico Zanier:

tutti testi in grado di far riflettere, di arricchire, di scavare nell'anima, ma anche capaci di emozionarmi e commuovermi, come il canto religioso “ Suspir da l'anime” di Oreste Rosso diventato il canto di saluto ai morti nella comunità di San Giorgio e non solo.

E quindi quando ho letto per la prima volta “ De profundis” e ne sono stato letteralmente colpito e affascinato, mi sono sentito in grado di tentare questa avventura. Ero certo che anche in italiano avrebbe avuto grande dignità e forza e avrebbe permesso di allargare e crescere il numero dei lettori. Mi aveva incoraggiato anche un passaggio della breve presentazione al libro di don Romano Michelotti:

Al è un libri che al pues jentrà a plen dirit te leterature sapienzial dal mont, fat par furlan ma no dome pai furlans.

Ora non v'è dubbio che la possibilità di lettura anche dei non friulani passa attraverso la versione in italiano. La traduzione è quasi sempre strettamente letterale per cercare di non perdere la freschezza, l'immediatezza, la passionalità del friulano di Bellina.

Devo ammettere che non sono mancate le difficoltà superate anche col suo aiuto...

Ma non ho mai avuto ripensamenti, convinto man mano che procedevo che la versione italiana manteneva tutta la forza , la musicalità, il ritmo del testo originale. Il mio intendimento è stato comunque quello di dare risonanza a un libro di straordinario valore di scrittura e di contenuti. La speranza e l'augurio è che ci siano molti nuovi lettori, ma anche che molti friulani saranno stimolati e invogliati ad andare a leggersi il “ De profundis “ in friulano che forse anche per merito del mio lavoro è stato recentemente ristampato.

In effetti il riscontro in questi mesi è stato buono e c'è stata anche la soddisfazione di un'ampia e favorevole recensione di Luciano Morandini sul settimanale “ Il Nuovo Friuli”. In cui il poeta scrittore parla di ” testimonianza di una fede che è una fiamma che brucia ininterrottamente, ma senza mai negarsi all'umanità e alla comprensione”.

Il “ De profundis”, il cui titolo nasce dalla personale ammirazione di Bellina per l'opera omonima di Oscar Wilde, è stato scritto nel 2003 in pochi mesi, di getto, praticamente sul campo di battaglia, sotto l'impulso della nuova grave malattia che aveva colpito don Bellina, che evidentemente si sentì di dover dare sfogo alle sue emozioni, per trovare la forza di superare la crisi che lo stava attanagliando al pensiero della catena a cui stava per essere legato per tutta la vita, quella poca che gli sarebbe rimasta, potremo aggiungere adesso.

Il racconto è incalzante, a volte drammatico, intenso e coinvolgente scritto nel caratteristico stile fatto di ironia di dirompente forza polemica ma sempre ispirato, ricco di approfondimenti psicologici e religiosi, di riflessioni sulla vita di ogni giorno, sull'attualità, sulla importanza fondamentale dei rapporti umani, dell'ascolto e dell'accettazione dell'altro.

In tutto il libro aleggia quello che era un po' il tormento di sempre, il dubbio ultimo di don Bellina: come conciliare la bontà di Dio con la sofferenza e la morte. Del resto tutti i suoi scritti comunicano una fede profonda ma allo stesso tempo inquieta che assume dubbi e interrogativi che si dissolvono tuttavia nella confidenza e nell' affidamento del Signore....

E' il tema che pre Toni ha trattato anche nel suo ultimo scritto su “La Vita Cattolica” che si concludeva così:” Se la sofferenza è vista e vissuta secondo la cruda razionalità è uno scandalo, è una assurdità, se invece si va più avanti e si guarda secondo la rivelazione delle scritture, allora diventa la strada privilegiata e sicura per entrare nella gloria”.

Ne aveva parlato anche in occasione della morte della madre qualche anno fa sempre nella rubrica “Cirint lis olmis di Diu”.. un pezzo che mi aveva particolarmente colpito..

Così scriveva allora...Chi non è stato splendido con lei è stato il Signore che doveva risparmiarle quel calvario infinito doloroso disumano incomprensibile . Lo dico da prete ma soprattutto da figlio Non mi sento di dire che è stato buono con lei e neanche giusto .O dis che no lu capis e mi patafi le bocje come Jop...

Ci tengo in modo particolare a sottolineare che le pagine finali di questa versione del “De profundis sono praticamente le ultime parole le ultime riflessioni scritte da don Bellina che gli avevo sollecitato come appendice , come commiato : sono scritte in italiano e datano pasqua 2007..

Oggi a me piace immaginarmelo come l'ha pensato Tito Maniacco in un suo articolo sul Gazzettino: col bastone e la conchiglia in viaggio per una Santiago di Compostela dell'eternità...

con a fianco Colui in cui hai sempre creduto e del quale ha fatto testimonianza per tutta la vita, e al quale -ne sono convinto- avrà cominciato a chiedere spiegazione sui tanti misteri e storture della vita umana e della storia del mondo....

Vorrei terminare il mio intervento leggendovi la parte finale del testamento trovato inciso in un dischetto datato addirittura 1992 probabilmente scritto in un momento difficile..

ma che ci fa capire ancora..una volta la grande sensibilità, umanità e amore per la sua fede e per la sua gente...

il testo ha come titolo “ Cumiat” e sottotitolo “par quant che rivarà le me ore e no podarai dì nuje”

Fradis e amis... è arrivato proprio il momento di lasciarci. Con la speranza di tornare a trovarci. Allungo la mano verso il Signore che mi ha creato e salvato, verso la Madonna che mi ha fatto da madre, verso i nostri santi e morti che hanno fatto il grande passaggio prima di noi e che ci stanno aspettando. La notte è fonda, la paura è grande. Spero che sia grande anche la sorpresa. Mi sto avviando accompagnato da tanta gente, da tanti protettori e amici. Ma anche voi , fratelli, statemi vicino. Fatemi luce con la vostra fede; datemi forza con la vostra speranza; scaldatemi col vostro perdono col vostro affetto. Fatemi la carità di una preghiera: che possa arrivare e arrivare bene. E io vi ricambierò quando arriverà la vostra ora. Guarda, arriva la barca. Pregate. Mandi. (pre Toni pecjador)

Gianni Bellinetti

mercoledì 2 luglio 2008

IL PARADOSSO DI UNA VOCAZIONE di Roberto Iacovissi

Si può vivere il progetto di una vocazione al sacerdozio anche come un paradosso: il paradosso di un amore dal quale si è attratti ma che a momenti ti respinge; continuamente in bilico tra una fortissima tensione spirituale e la piccolezza delle realtà umane con le quali bisogna fare i conti. In questo paradosso, alla fine comunque serenamente accettato anche se non del tutto completamente risolto, sta lo snodo della vita di pre Toni Bellina, che una lunghissima malattia densa di grande sofferenza, ha chiuso per sempre la notte di una giornata d’aprile di un anno fa.
“Sono un pover’uomo che cerca di vivere la sua vocazione - aveva detto all’amico Marino Plazzotta che lo stava intervistando per un libro, La fatica di essere prete -, e che cerca con difficoltà e con qualche incoerenza, di star dentro ad una “baracca”, per annunciare il messaggio della libertà, quel messaggio che dovrebbe essere l’obiettivo primario della Chiesa e che spesso viene dimenticato[…]. Per mantenere la tua libertà oggi devi pagare un prezzo. Non solo un prezzo in termini di carriera: è un prezzo di salute, di intelligenza, un prezzo di vita[…], Non è però un “pizzo” che ti toglie tanto per non darti nulla. E’ un progetto di vita che, anche se riesci a realizzare solo in parte, ti riempie di serenità”.
E così, pre Toni ha dovuto fare tanta fatica: non solo quella fisica, ma anche quella, certamente più pesante, della sofferenza, della incomprensione e della solitudine, per essere coerente all’interno di quella “baracca” nella quale lui aveva scelto di annunciare la libertà. L’amava sopra ogni cosa, lui, quella chiesa, e senza di lei non avrebbe proprio potuto vivere. La chiesa era sua madre, e la gente, la int, la sua patria. E se questa madre e questa patria non le avesse amate fino alla consumazione di sé, certamente non avrebbe patito tante incomprensioni ed ostilità per la schiettezza , a volte persino irriverente, della sua parola, e per il coraggio della sua testimonianza, che lo aveva portato a scrivere tanti libri non per sé, ma per aiutare i suoi confratelli nella ricerca della libertà perché, diceva, “restâ libars intune struture come la nestre al è il spiç de cariere”.
E proprio nella chiesa dei “curiandoli”, come lui l’aveva chiamata, non aveva avuto vita facile, a cominciare da quei lontani anni quando, ancora bambino, si era timidamente presentato davanti ai cancelli del seminario con l’idea di farsi prete , anche se il padre non ne voleva proprio sapere della decisione del figlio. Basta scorrere le pagine di un libro, La fabriche dai predis, dove il titolo ne riassume, emblematicamente, il contenuto, nel quale raccontava , con una lucida analisi sospesa a metà tra una denuncia ostinata ed amara, che tradiva un’intima delusione, ed una sorta di melanconica nostalgia per quegli anni, la sua difficile esperienza( che era poi quella di tanti suoi confratelli)di crescita nella preparazione verso il sacerdozio.
In quel libro - confessione, ma anche lucido trattato di sociologia di formazione del prete, per così dire, sul campo, pre Toni raccontava le difficoltà e le incomprensioni che aveva dovuto superare per mantenere la sua scelta. Era un libro polemico e coraggioso ad un tempo, il suo, che confessando la sua – e quella di altri come lui – esperienza senza nulla tacere, aveva squarciato il velo su di un mondo presso ché sconosciuto.
L’aveva scritto – ma questo lo confesserà più tardi – con l’idea di offrire un regalo ai confratelli ed alla Chiesa affinché cogliessero l’occasione per una verifica e per un eventuale cambiamento; invece, quella Chiesa che in cuor suo sperava fosse “semper reformanda”, aveva chiesto all’autore di togliere il libro dalla circolazione: E pre Toni ubbidì, e si può capire quanto gli dovette costare quel gesto di ubbidienza e d’amore verso la sua Chiesa.Perché quel libro l’aveva scritto per amore della Chiesa e della verità, come era avvenuto per un altro libro precedente, uno dei suoi primi lavori, Siôr Santul, nel quale raccontava la vita di don Luigi Zuliani, parroco di Cercivento, dedicandolo a tutti i sacerdoti “che non hanno fatto strada in questo mondo, con la speranza che la facciano nell’altro, e a tutti coloro che hanno fatto strada in questo, con la speranza che non ne facciano anche in quell’altro”.
Nel paradosso di questa affermazione, la sua invocazione di giustizia. Non certo per sé, in quanto la sua scelta, “di frutin in sù, forsit par chê timidece che par nô furlans, soredut di estrazion contadine o paesane, e je une seconde piel, o ài cirût di tignîmi lontan dai grancj sunsûrs e des grandis folis. Cussì o ài preferît al paisot il paisut, a la place la periferie, a une gleseone une gleseute, miôr ancjemò se di campagne e fûr di man, come chês gleseutis votivis che a segnin stradis e lis vitis de nestre int. Gleseutis che no àn altre companie che lis liseltris e il cjant dai ucei al prin cricâ da l’albe a la ultime spere di soreli”. E del paradosso si nutriva anche la sua vis polemica : i paradossi, erano un po’ le sue parabole, e proprio da loro traeva granelli di insegnamento per tutti capovolgendo, come era nel sue costume, le convinzioni correnti, giudizi stereotipati e certo immobilismo acquiescente presente tra tanti fedeli.
Anche la sua vita, del resto, era stata una vita di paradossi: prete nella scuola e maestro in chiesa, amava dire, perché la sua università l’aveva fatta tutta a Valle e Rivalpo, in Carnia, dove aveva vinto il concorso per fare il pievano( ma soltanto più tardi aveva saputo di essere stato l’unico concorrente), ed era stata una università popolare, una scuola di popolo che iniziava proprio dalla vita quotidiana, a contatto con la gente con la quale aveva scelto di vivere dopo il seminario
Sotto il Tersadia era diventato pievano un una sorta di Barbiana, e per insegnare ai bambini – lo farà per quattro anni- aveva perfino studiato per ottenere il diploma di maestro, ed era un titolo di cui andava fiero, e così si era immerso in una esperienza di prete e di maestro come don Milani. La scuola di Barbiana lo aveva affascinato da subito: per questo aveva avviato la sua scuola, dove si insegnava in friulano. Voleva che il suo popolo, muto da sempre, incominciasse a parlare nella sua lingua, ed era andato anche oltre, facendo in modo che la sua gente potesse leggere ascoltare la parola di Dio nella sua lingua, e parlasse con Lui come si può parlare con il proprio padre e con la propria madre. Quella sua gente che a tutti aveva preferito forse da quando, arrivato a Barbiana in una sorta di pellegrinaggio con l’amico pre Romano, aveva deciso di portare a casa, in ricordo, un ramo di ginestra, sperando magari di poter portare quell’esperienza in Friuli. Ma il buon Dio non aveva permesso prendesse piede in terra friulana. Dio, aveva detto in quella occasione pre Toni , ci aveva castigati, perché le rose di Barbiana bisogna andarle a vederle a Barbiana. Qui dobbiamo piantare rose adatte alla nostra terra ed alla nostra aria.
Ma, a parte la lingua e la diversa tradizione culturale delle due realtà, tra la sua esperienza e quella di Barbiana c’erano moltissimi punti di contatto: la scelta dei più poveri e del piccolo paese, i rapporti problematici con la curia e lo stesso rigore morale nell’insegnamento.
Controcorrente e paradossale è anche un libro, dal titolo significativo Trilogjie, con il quale, come lui stesso aveva scritto, avviandosi verso quella età della vita nella quale ci si avvicina alla sera, aveva voluto fare un percorso spirituale che aveva chiamato analogico e, per molti versi, quasi autobiografico. Con quel libro aveva voluto andare a cercare virtù, insegnamento, sapienza profezia, regola di vita. riflesso di Dio laddove per solito non li si va di certo a cercare, componendo un trittico, una trilogia, appunto, nella quale non aveva voluto raffigurare tre santi che tutti lodano, ma tre persone, tre esistenze, tre fratelli che nella loro vita sono stati criticati, emarginati, condannati dai benpensanti e dai tutori del buon ordine, che non è sempre ordine e raramente buono: don Lorenzo Milani, Oscar Wilde e Pierpaolo Pasolini.
Tre anime tormentate come la sua, che tormentano anche noi, e che il passare inesorabile del tempo e l’acquietarsi terapeutico delle passioni e dei pregiudizi ci presentano nella loro grandezza più sfavillante, nelle loro intuizioni più approfondite, nella loro unicità sempre più evidente marcata. Anime che sono entrate nella eternità, ma che dalla eternità continuano a parlarci ed a insegnarci la strada come fanno le stelle del firmamento. E solo Dio sa quanto abbiamo bisogno di stelle” in chest nestri cîl simpri plui fumul, in cheste gnost simpri plui scure e incuietant”.
Pasolini, addirittura, lo aveva messo tra i profeti. Perché il profeta, aveva scritto, è colui che parla al posto di; davanti e prima di, cioè prima di tutti. E Pasolini, per pre Toni, era un profeta non perché avesse fatto profezie sulla fine del mondo o sull’al di là, ma perché le aveva fatte per questo mondo. Poi, con l’affetto sincero che provava per il poeta di Casarsa, come per gli altri due amici dei quali si sentiva come sodale in cammino, chiudeva la sua trilogia raccontando dell’amico Pasolini quello che certo avrebbe voluto raccontassero di lui: “Vorrei anche che gli amici non lo canonizzassero e i nemici non lo demonizzassero: neppure lui ha voluto passare per un modello di perfezione”. Poi, l’ultima preghiera per l’amico, che è di certo stata la sua ultima invocazione: che il suo cercare tormentato e contraddittorio possa trovare in Dio la gioia e la pace.Quella pace che pre Toni forse non aveva completamente trovato sulla terra. “Quando sono arrivato in questo mondo, chi se ne accorto, aveva scritto in De Profundis, il suo ultimo, grande salmo esistenziale. Quando me ne andrò, chi si scomporrà? Chi può perdere tempo ad ascoltare il mio grido, dal momento che tutti gridano la loro passione, e questo grido cosmico è tanto grande, tanto tremendo, tanto angosciante che non si riesce a sentire alcun tipo di suono?”
Defunctus adhuc loquitur: ma pre Toni ci parla anche dopo morto, ci parla anche lui da profeta del nostro tempo, luce che rischiara il cammino che dobbiamo affrontare con il suo esempio, ma con la nostra responsabilità, come lui amava ripetere.Senza alibi e senza illusioni di sorta, perché ciascuno di noi deve caricarsi della sua croce e camminare con le sue gambe verso la pienezza della verità e della vita. I grandi, compresi i profeti come lui, possono aiutarci, indirizzarci, illuminarci, ma non possono prendere il nostro posto e compiere la parte che Dio ha destinato a ciascuno di noi.

Roberto Iacovissi