venerdì 18 luglio 2008

DAL PROFONDO

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Prima di lasciarci ci furono gli ultimi accordi per la presentazione di Palmanova che era programmata per cinque giorni dopo e perfino per il progetto di una gita in Carnia nei suoi paesi tanto amati.

Poi noi l'abbiamo fatta ugualmente quella gita...

Quel giorno durante la nostra visita non fece trasparire nessuna preoccupazione, sicuramente per non allarmarci, ma evidentemente c'era qualcosa nell'aria, se quasi sempre negli ultimi tempi al telefono mi diceva “ o soi strac”, se anche nel libro intervista del giornalista Marino Plazzotta si legge questo passaggio premonitore : “ Se dovessi chiudere ora , chiuderei bene. Con le poche briscole che ho avuto credo di aver fatto una partita discreta. Per il resto non faccio progetti. Non ho né la forza , né la lucidità”.

Se infine aveva confessato al vescovo Battisti, che era stato a trovarlo nel suo ultimo ricovero, di sentire la morte vicina.

Poi arrivò quella telefonata con la tragica notizia della sua morte che mi lasciò addolorato e sconvolto...

In verità la sua morte ha fatto sì che sapessimo dai giornali quasi tutto della vita , delle opere, della sua personalità straordinaria. Di questo prete scomodo che viveva appartato , quasi emarginato, ma che aveva continuato a scrivere, a pensare, a svolgere la sua missione di educatore di anime, che ha sempre insegnato a essere liberi e responsabili pagando fino in fondo il prezzo di questa libertà.

In quei giorni sono arrivati anche, magari tardivi, elogi da tutte le parti, come tardi è arrivato l'annuncio che era quasi alla fine l'iter per la concessione della laurea honoris causa, e della presentazione del suo messal al Papa da parte del vescovo Brollo, presente a Roma proprio nei giorni della sua morte.

Una cosa è certa: il Friuli è più povero, come è stato scritto.

Perchè don Bellina, oltre che sacerdote, è stato scrittore, intellettuale, giornalista, e naturalmente accanito infaticabile friulanista. E' stato l'anima di Glesie Furlane,l'associazione che ha nel suo statuto come scopo principale di andare alla scoperta delle radici culturali e religiose del Friuli.

Ha diretto per moltissimi anni la rivista “ Patrie dal Friul” che si è sempre battuta per l'autonomia. In un bell'articolo sul Gazzettino, in occasione dei 60 anni del periodico nato nel 1946, Bellina concludeva dicendo : ” Nonostante i risultati deludenti de semence butade, noi continuiamo a seminare, a tenere accesa la fiamma dell'autonomia. Siamo convinti che nel cuore dei friulani resta sempre questo desiderio di autonomia, questa coscienza di una identità e alterità. Si tratta di continuare sperando nelle sorprese della storia e nell'intelligenzanostra gente”.

Ma Bellina è stato soprattutto scrittore e in particolare grandissimo prosatore ed ha scritto moltissimo...,, e naturalmente sempre esclusivamente in friulano, come in friulano celebrava la messa e le funzioni religiose nella sua parrocchia. E' quasi impossibile citare tutti i suoi libri: una volta mi aveva scherzosamente confessato di considerarsi a questo proposito un incontinente.

Ne “La fatica di essere prete” il bellissimo libro intervista di cui poi vi parlerà Marino Plazzotta Bellina uscito anch'esso subito dopo la sua scomparsa, racconta di aver cominciato a scrivere per caso, quasi per scherzo traducendo a voce ad alcuni amici preti le favole di Fedro dal latino in friulano. Era rimasto colpito che quelle favole fossero belle anche in friulano e così le tradusse tutte e ne venne fuori il suo primo libro: “Lis flabis di Fedro voltadis pai Furlans”, nel quale ad ogni favola aggiunse anche un'attualizzazione sulla nostra società e sul nostro tempo.

Una delle opere che fece più clamore suscitando risentimenti e dure reazioni tanto da venire ritirata dalle librerie è stata “ La fabriche dai predis”, della quale Proprio ultimamente si è tornato a parlare e a discutere a causa di una possibile ristampa in una traduzione in italiano..

Ma il suo nome resterà indubbiamente legato alla traduzione della Bibbia.

Un sicuro lasciapassare per il Paradiso l'ha definito il vescovo Brollo. Si può ben dire che la sua vita sia stata segnata da due fondamentali esperienze profondissime e laceranti: le malattie e la Bibie...

Spesso raccontava che quando arrivò all'ultimo versetto scoppiò in un pianto dirotto probabilmente anche nella consapevolezza di aver raggiunto uno storico traguardo per tutto il Friuli e per la sua Chiesa.

L'ultima sua opera... uscita poco più di un mese prima della sua morte... è “ Storie Sacre” , con la quale lui che diceva di non essere molto portato per la poesia ci regala in rima alcuni episodi della Bibbia e del Vangelo che si leggono con un piacere gioioso per la genuinità, la semplicità il candore dei versi che escono spontanei da suo cuore

Tutti hanno sempre parlato di prete scomodo, controcorrente e anche di carattere scorbutico e difficile. Pochi hanno evidenziato la sua tenerezza, la sua grande umanità, la sua capacità di ascoltare, assolvere, rispettare, di proporre una religione fatta di amore , di accoglienza, vicina alla gente. Tutte cose che ho potuto constatare di persona nel mio pur breve sodalizio con pre Toni. Come dimenticare il suo lato romantico, il suo amore per la natura, per gli animali

( al suo funerale nella cappella lungo la navata si sentiva cinguettare il canarino che era solito portare in chiesa durante le funzioni), o ancora la capacità di commuoversi ascoltando la sua musica preferita o l'affetto e la simpatia che aveva per i bambini ?

Certamente la sua vis polemica innata ( si è letto anche il termine enfant terrible) , sicuramente il suo tono, il suo linguaggio duro , schietto, senza alcuna preoccupazione di addolcire termini e giudizi può forse irritare e scandalizzare , come spesso è successo.

Ma a una lettura attenta e non superficiale si percepisce “ Il respiro vasto , profondo con cui l'autore guarda l'insieme della realtà della fede e della prassi di fede nella storia” , come sottolinea molto bene Cristina Bartolomei, docente di filosofia morale all'università di Milano nella prefazione a un'altra delle opere più sofferte e compiute

Et incarnatus est” , pubblicato nel 2005.

Scrive ancora la professoressa: “ Le note di fondo sono gli affetti, la passione, il travaglio, la profonda fede e pietà, l'amore grande alla Chiesa, alla storia di fatica e di liberazione dell'umanità, ai piccoli e agli ultimi, alla grande tradizione aquileiese, radice della Chiesa friulana”.

E per quanto riguarda la sua forza e libertà di pensiero, la sua modernità la sua visione rivoluzionaria della Chiesa voglio citare come esempio la questione del sacerdozio alle donne, tema che affronta proprio nell' “Et incarnatus est”, ma che riprende anche nell'intervista al giornalista Plazzotta.

Ecco cosa scrive Bellina: “ Essendo la religione un qualcosa che parte dal cuore e dal sentimento più che dalla testa e dalla razionalità, la donna è tanto più adatta dell'uomo ad avere una parte portante nella religione.

Io preferirei avere per prete una donna perchè la religione è più femminile più consolatrice... in che dì che la femine cu le so feminilitat e sensibilitat e podarà celebrà i misteris e proclamà la paraule e sarà une grande zornade! “.

Venendo al “De profundis” non starò a entrare nei dettagli di come è nato questo progetto né delle circostanze casuali anche se in parte ricercate che ne sono state all'origine, che comunque potrete leggere nella mia presentazione al libro.

Mi preme invece ribadire che tutte le fasi, i momenti , i passaggi sono avvenuti col consenso, la collaborazione, i consigli e , ci tengo a dirlo, gli incoraggiamenti di pre Toni.

Voglio precisare questo perchè mi rendo conto che probabilmente questa operazione può aver suscitato una certa sorpresa se non addirittura qualche perplessità, visto che nonostante i miei oltre quarant'anni di permanenza in Friuli sono a tutti gli effetti considerato giustamente un veneto, né va trascurata la mia laicità di pensiero, che del resto pre Toni non mi ha mai fatto pesare, e inoltre non si può dimenticare che è la prima volta che si traduce in italiano un libro di Bellina.

Rispetto alla mia capacità di destreggiarmi col friulano ( ho scoperto comunque che anche molti friulani stentano a leggere nella loro lingua) voglio dire che il friulano ho imparato a conoscerlo dai miei familiari in casa e dai tanti friulani che ho frequentato. Mi ritrovo a usare in modo del tutto naturale quel saluto mandi -uno dei più belli che esistano, comunque si voglia interpretare: stai bene a lungo o rimani con Dio.

Ed ho conosciuto e letto anche il friulano letterario: l'ho apprezzato nei versi dei miei amici Maria Fanin e Galliano Zof, nell'opera fondamentale “ I Turcs tal Friul” di Pasolini, nella raccolta di poesie “Libers di scugnì là” di Leonardo Zanier, nei poemi grandiosi di Domenico Zanier:

tutti testi in grado di far riflettere, di arricchire, di scavare nell'anima, ma anche capaci di emozionarmi e commuovermi, come il canto religioso “ Suspir da l'anime” di Oreste Rosso diventato il canto di saluto ai morti nella comunità di San Giorgio e non solo.

E quindi quando ho letto per la prima volta “ De profundis” e ne sono stato letteralmente colpito e affascinato, mi sono sentito in grado di tentare questa avventura. Ero certo che anche in italiano avrebbe avuto grande dignità e forza e avrebbe permesso di allargare e crescere il numero dei lettori. Mi aveva incoraggiato anche un passaggio della breve presentazione al libro di don Romano Michelotti:

Al è un libri che al pues jentrà a plen dirit te leterature sapienzial dal mont, fat par furlan ma no dome pai furlans.

Ora non v'è dubbio che la possibilità di lettura anche dei non friulani passa attraverso la versione in italiano. La traduzione è quasi sempre strettamente letterale per cercare di non perdere la freschezza, l'immediatezza, la passionalità del friulano di Bellina.

Devo ammettere che non sono mancate le difficoltà superate anche col suo aiuto...

Ma non ho mai avuto ripensamenti, convinto man mano che procedevo che la versione italiana manteneva tutta la forza , la musicalità, il ritmo del testo originale. Il mio intendimento è stato comunque quello di dare risonanza a un libro di straordinario valore di scrittura e di contenuti. La speranza e l'augurio è che ci siano molti nuovi lettori, ma anche che molti friulani saranno stimolati e invogliati ad andare a leggersi il “ De profundis “ in friulano che forse anche per merito del mio lavoro è stato recentemente ristampato.

In effetti il riscontro in questi mesi è stato buono e c'è stata anche la soddisfazione di un'ampia e favorevole recensione di Luciano Morandini sul settimanale “ Il Nuovo Friuli”. In cui il poeta scrittore parla di ” testimonianza di una fede che è una fiamma che brucia ininterrottamente, ma senza mai negarsi all'umanità e alla comprensione”.

Il “ De profundis”, il cui titolo nasce dalla personale ammirazione di Bellina per l'opera omonima di Oscar Wilde, è stato scritto nel 2003 in pochi mesi, di getto, praticamente sul campo di battaglia, sotto l'impulso della nuova grave malattia che aveva colpito don Bellina, che evidentemente si sentì di dover dare sfogo alle sue emozioni, per trovare la forza di superare la crisi che lo stava attanagliando al pensiero della catena a cui stava per essere legato per tutta la vita, quella poca che gli sarebbe rimasta, potremo aggiungere adesso.

Il racconto è incalzante, a volte drammatico, intenso e coinvolgente scritto nel caratteristico stile fatto di ironia di dirompente forza polemica ma sempre ispirato, ricco di approfondimenti psicologici e religiosi, di riflessioni sulla vita di ogni giorno, sull'attualità, sulla importanza fondamentale dei rapporti umani, dell'ascolto e dell'accettazione dell'altro.

In tutto il libro aleggia quello che era un po' il tormento di sempre, il dubbio ultimo di don Bellina: come conciliare la bontà di Dio con la sofferenza e la morte. Del resto tutti i suoi scritti comunicano una fede profonda ma allo stesso tempo inquieta che assume dubbi e interrogativi che si dissolvono tuttavia nella confidenza e nell' affidamento del Signore....

E' il tema che pre Toni ha trattato anche nel suo ultimo scritto su “La Vita Cattolica” che si concludeva così:” Se la sofferenza è vista e vissuta secondo la cruda razionalità è uno scandalo, è una assurdità, se invece si va più avanti e si guarda secondo la rivelazione delle scritture, allora diventa la strada privilegiata e sicura per entrare nella gloria”.

Ne aveva parlato anche in occasione della morte della madre qualche anno fa sempre nella rubrica “Cirint lis olmis di Diu”.. un pezzo che mi aveva particolarmente colpito..

Così scriveva allora...Chi non è stato splendido con lei è stato il Signore che doveva risparmiarle quel calvario infinito doloroso disumano incomprensibile . Lo dico da prete ma soprattutto da figlio Non mi sento di dire che è stato buono con lei e neanche giusto .O dis che no lu capis e mi patafi le bocje come Jop...

Ci tengo in modo particolare a sottolineare che le pagine finali di questa versione del “De profundis sono praticamente le ultime parole le ultime riflessioni scritte da don Bellina che gli avevo sollecitato come appendice , come commiato : sono scritte in italiano e datano pasqua 2007..

Oggi a me piace immaginarmelo come l'ha pensato Tito Maniacco in un suo articolo sul Gazzettino: col bastone e la conchiglia in viaggio per una Santiago di Compostela dell'eternità...

con a fianco Colui in cui hai sempre creduto e del quale ha fatto testimonianza per tutta la vita, e al quale -ne sono convinto- avrà cominciato a chiedere spiegazione sui tanti misteri e storture della vita umana e della storia del mondo....

Vorrei terminare il mio intervento leggendovi la parte finale del testamento trovato inciso in un dischetto datato addirittura 1992 probabilmente scritto in un momento difficile..

ma che ci fa capire ancora..una volta la grande sensibilità, umanità e amore per la sua fede e per la sua gente...

il testo ha come titolo “ Cumiat” e sottotitolo “par quant che rivarà le me ore e no podarai dì nuje”

Fradis e amis... è arrivato proprio il momento di lasciarci. Con la speranza di tornare a trovarci. Allungo la mano verso il Signore che mi ha creato e salvato, verso la Madonna che mi ha fatto da madre, verso i nostri santi e morti che hanno fatto il grande passaggio prima di noi e che ci stanno aspettando. La notte è fonda, la paura è grande. Spero che sia grande anche la sorpresa. Mi sto avviando accompagnato da tanta gente, da tanti protettori e amici. Ma anche voi , fratelli, statemi vicino. Fatemi luce con la vostra fede; datemi forza con la vostra speranza; scaldatemi col vostro perdono col vostro affetto. Fatemi la carità di una preghiera: che possa arrivare e arrivare bene. E io vi ricambierò quando arriverà la vostra ora. Guarda, arriva la barca. Pregate. Mandi. (pre Toni pecjador)

Gianni Bellinetti

mercoledì 2 luglio 2008

IL PARADOSSO DI UNA VOCAZIONE di Roberto Iacovissi

Si può vivere il progetto di una vocazione al sacerdozio anche come un paradosso: il paradosso di un amore dal quale si è attratti ma che a momenti ti respinge; continuamente in bilico tra una fortissima tensione spirituale e la piccolezza delle realtà umane con le quali bisogna fare i conti. In questo paradosso, alla fine comunque serenamente accettato anche se non del tutto completamente risolto, sta lo snodo della vita di pre Toni Bellina, che una lunghissima malattia densa di grande sofferenza, ha chiuso per sempre la notte di una giornata d’aprile di un anno fa.
“Sono un pover’uomo che cerca di vivere la sua vocazione - aveva detto all’amico Marino Plazzotta che lo stava intervistando per un libro, La fatica di essere prete -, e che cerca con difficoltà e con qualche incoerenza, di star dentro ad una “baracca”, per annunciare il messaggio della libertà, quel messaggio che dovrebbe essere l’obiettivo primario della Chiesa e che spesso viene dimenticato[…]. Per mantenere la tua libertà oggi devi pagare un prezzo. Non solo un prezzo in termini di carriera: è un prezzo di salute, di intelligenza, un prezzo di vita[…], Non è però un “pizzo” che ti toglie tanto per non darti nulla. E’ un progetto di vita che, anche se riesci a realizzare solo in parte, ti riempie di serenità”.
E così, pre Toni ha dovuto fare tanta fatica: non solo quella fisica, ma anche quella, certamente più pesante, della sofferenza, della incomprensione e della solitudine, per essere coerente all’interno di quella “baracca” nella quale lui aveva scelto di annunciare la libertà. L’amava sopra ogni cosa, lui, quella chiesa, e senza di lei non avrebbe proprio potuto vivere. La chiesa era sua madre, e la gente, la int, la sua patria. E se questa madre e questa patria non le avesse amate fino alla consumazione di sé, certamente non avrebbe patito tante incomprensioni ed ostilità per la schiettezza , a volte persino irriverente, della sua parola, e per il coraggio della sua testimonianza, che lo aveva portato a scrivere tanti libri non per sé, ma per aiutare i suoi confratelli nella ricerca della libertà perché, diceva, “restâ libars intune struture come la nestre al è il spiç de cariere”.
E proprio nella chiesa dei “curiandoli”, come lui l’aveva chiamata, non aveva avuto vita facile, a cominciare da quei lontani anni quando, ancora bambino, si era timidamente presentato davanti ai cancelli del seminario con l’idea di farsi prete , anche se il padre non ne voleva proprio sapere della decisione del figlio. Basta scorrere le pagine di un libro, La fabriche dai predis, dove il titolo ne riassume, emblematicamente, il contenuto, nel quale raccontava , con una lucida analisi sospesa a metà tra una denuncia ostinata ed amara, che tradiva un’intima delusione, ed una sorta di melanconica nostalgia per quegli anni, la sua difficile esperienza( che era poi quella di tanti suoi confratelli)di crescita nella preparazione verso il sacerdozio.
In quel libro - confessione, ma anche lucido trattato di sociologia di formazione del prete, per così dire, sul campo, pre Toni raccontava le difficoltà e le incomprensioni che aveva dovuto superare per mantenere la sua scelta. Era un libro polemico e coraggioso ad un tempo, il suo, che confessando la sua – e quella di altri come lui – esperienza senza nulla tacere, aveva squarciato il velo su di un mondo presso ché sconosciuto.
L’aveva scritto – ma questo lo confesserà più tardi – con l’idea di offrire un regalo ai confratelli ed alla Chiesa affinché cogliessero l’occasione per una verifica e per un eventuale cambiamento; invece, quella Chiesa che in cuor suo sperava fosse “semper reformanda”, aveva chiesto all’autore di togliere il libro dalla circolazione: E pre Toni ubbidì, e si può capire quanto gli dovette costare quel gesto di ubbidienza e d’amore verso la sua Chiesa.Perché quel libro l’aveva scritto per amore della Chiesa e della verità, come era avvenuto per un altro libro precedente, uno dei suoi primi lavori, Siôr Santul, nel quale raccontava la vita di don Luigi Zuliani, parroco di Cercivento, dedicandolo a tutti i sacerdoti “che non hanno fatto strada in questo mondo, con la speranza che la facciano nell’altro, e a tutti coloro che hanno fatto strada in questo, con la speranza che non ne facciano anche in quell’altro”.
Nel paradosso di questa affermazione, la sua invocazione di giustizia. Non certo per sé, in quanto la sua scelta, “di frutin in sù, forsit par chê timidece che par nô furlans, soredut di estrazion contadine o paesane, e je une seconde piel, o ài cirût di tignîmi lontan dai grancj sunsûrs e des grandis folis. Cussì o ài preferît al paisot il paisut, a la place la periferie, a une gleseone une gleseute, miôr ancjemò se di campagne e fûr di man, come chês gleseutis votivis che a segnin stradis e lis vitis de nestre int. Gleseutis che no àn altre companie che lis liseltris e il cjant dai ucei al prin cricâ da l’albe a la ultime spere di soreli”. E del paradosso si nutriva anche la sua vis polemica : i paradossi, erano un po’ le sue parabole, e proprio da loro traeva granelli di insegnamento per tutti capovolgendo, come era nel sue costume, le convinzioni correnti, giudizi stereotipati e certo immobilismo acquiescente presente tra tanti fedeli.
Anche la sua vita, del resto, era stata una vita di paradossi: prete nella scuola e maestro in chiesa, amava dire, perché la sua università l’aveva fatta tutta a Valle e Rivalpo, in Carnia, dove aveva vinto il concorso per fare il pievano( ma soltanto più tardi aveva saputo di essere stato l’unico concorrente), ed era stata una università popolare, una scuola di popolo che iniziava proprio dalla vita quotidiana, a contatto con la gente con la quale aveva scelto di vivere dopo il seminario
Sotto il Tersadia era diventato pievano un una sorta di Barbiana, e per insegnare ai bambini – lo farà per quattro anni- aveva perfino studiato per ottenere il diploma di maestro, ed era un titolo di cui andava fiero, e così si era immerso in una esperienza di prete e di maestro come don Milani. La scuola di Barbiana lo aveva affascinato da subito: per questo aveva avviato la sua scuola, dove si insegnava in friulano. Voleva che il suo popolo, muto da sempre, incominciasse a parlare nella sua lingua, ed era andato anche oltre, facendo in modo che la sua gente potesse leggere ascoltare la parola di Dio nella sua lingua, e parlasse con Lui come si può parlare con il proprio padre e con la propria madre. Quella sua gente che a tutti aveva preferito forse da quando, arrivato a Barbiana in una sorta di pellegrinaggio con l’amico pre Romano, aveva deciso di portare a casa, in ricordo, un ramo di ginestra, sperando magari di poter portare quell’esperienza in Friuli. Ma il buon Dio non aveva permesso prendesse piede in terra friulana. Dio, aveva detto in quella occasione pre Toni , ci aveva castigati, perché le rose di Barbiana bisogna andarle a vederle a Barbiana. Qui dobbiamo piantare rose adatte alla nostra terra ed alla nostra aria.
Ma, a parte la lingua e la diversa tradizione culturale delle due realtà, tra la sua esperienza e quella di Barbiana c’erano moltissimi punti di contatto: la scelta dei più poveri e del piccolo paese, i rapporti problematici con la curia e lo stesso rigore morale nell’insegnamento.
Controcorrente e paradossale è anche un libro, dal titolo significativo Trilogjie, con il quale, come lui stesso aveva scritto, avviandosi verso quella età della vita nella quale ci si avvicina alla sera, aveva voluto fare un percorso spirituale che aveva chiamato analogico e, per molti versi, quasi autobiografico. Con quel libro aveva voluto andare a cercare virtù, insegnamento, sapienza profezia, regola di vita. riflesso di Dio laddove per solito non li si va di certo a cercare, componendo un trittico, una trilogia, appunto, nella quale non aveva voluto raffigurare tre santi che tutti lodano, ma tre persone, tre esistenze, tre fratelli che nella loro vita sono stati criticati, emarginati, condannati dai benpensanti e dai tutori del buon ordine, che non è sempre ordine e raramente buono: don Lorenzo Milani, Oscar Wilde e Pierpaolo Pasolini.
Tre anime tormentate come la sua, che tormentano anche noi, e che il passare inesorabile del tempo e l’acquietarsi terapeutico delle passioni e dei pregiudizi ci presentano nella loro grandezza più sfavillante, nelle loro intuizioni più approfondite, nella loro unicità sempre più evidente marcata. Anime che sono entrate nella eternità, ma che dalla eternità continuano a parlarci ed a insegnarci la strada come fanno le stelle del firmamento. E solo Dio sa quanto abbiamo bisogno di stelle” in chest nestri cîl simpri plui fumul, in cheste gnost simpri plui scure e incuietant”.
Pasolini, addirittura, lo aveva messo tra i profeti. Perché il profeta, aveva scritto, è colui che parla al posto di; davanti e prima di, cioè prima di tutti. E Pasolini, per pre Toni, era un profeta non perché avesse fatto profezie sulla fine del mondo o sull’al di là, ma perché le aveva fatte per questo mondo. Poi, con l’affetto sincero che provava per il poeta di Casarsa, come per gli altri due amici dei quali si sentiva come sodale in cammino, chiudeva la sua trilogia raccontando dell’amico Pasolini quello che certo avrebbe voluto raccontassero di lui: “Vorrei anche che gli amici non lo canonizzassero e i nemici non lo demonizzassero: neppure lui ha voluto passare per un modello di perfezione”. Poi, l’ultima preghiera per l’amico, che è di certo stata la sua ultima invocazione: che il suo cercare tormentato e contraddittorio possa trovare in Dio la gioia e la pace.Quella pace che pre Toni forse non aveva completamente trovato sulla terra. “Quando sono arrivato in questo mondo, chi se ne accorto, aveva scritto in De Profundis, il suo ultimo, grande salmo esistenziale. Quando me ne andrò, chi si scomporrà? Chi può perdere tempo ad ascoltare il mio grido, dal momento che tutti gridano la loro passione, e questo grido cosmico è tanto grande, tanto tremendo, tanto angosciante che non si riesce a sentire alcun tipo di suono?”
Defunctus adhuc loquitur: ma pre Toni ci parla anche dopo morto, ci parla anche lui da profeta del nostro tempo, luce che rischiara il cammino che dobbiamo affrontare con il suo esempio, ma con la nostra responsabilità, come lui amava ripetere.Senza alibi e senza illusioni di sorta, perché ciascuno di noi deve caricarsi della sua croce e camminare con le sue gambe verso la pienezza della verità e della vita. I grandi, compresi i profeti come lui, possono aiutarci, indirizzarci, illuminarci, ma non possono prendere il nostro posto e compiere la parte che Dio ha destinato a ciascuno di noi.

Roberto Iacovissi