domenica 3 febbraio 2008

MEDIA VITA IN MORTE SUMUS

Tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo sentito sentenziare: “vita brevis est”. Forse era un prete, forse un filosofo, forse un anziano o un genitore.Per certo sappiamo che ciò non ebbe mai alcuna influenza sulle nostre abitudini quotidiane. Nemmeno la diffusa certezza che “media vita in morte sumus”, cioè che proprio mentre viviamo ci avviciniamo al nostro destino, credo, abbia mai indotto qualcuno a cambiare la propria vita. L’ineluttabilità della nostra sorte ci lascia, per fortuna, indifferenti.

Per alcuni, poi, il vivere assume straordinarie caratteristiche di serenità, tranquillità, frequenti momenti di soddisfazione. Costoro attraversano il tempo che gli è concesso quasi fosse una passeggiata, quasi fischiando, anzi fischiano proprio. Sono dei privilegiati soprattutto perché condividono un minimo comune divisore che è importante e fondamentale: la salute. “Mai vût nuie” ripetono come fosse tutto loro merito!

Gli altri, cioè quanti passano la vita piangendo, o come si dice dalle nostre parti “càinant”, neppure osano chiedersi perché gli è “toccata” questa vita e non un’altra.

Il libro di Pre Antoni “De Profundis” (in lingua friulana) è una precisa descrizione di quello che può accadere a quanti, improvvisamente, sono colti da qualche cosa che li sorprende, li stupisce ed avvilisce. Non si parla di morte improvvisa. La morte come si sa “quando c’è noi non ci siamo”. Si racconta della malattia che ti fa prima uno sgambetto, poi ti aggredisce con progressione inesorabile, incatenandoti, diventa cronica. Più grave è, più grande è la sorpresa di chi la subisce.

Pre Antoni elenca con una precisione professionale, ma anche con umanità, tutti i passaggi che uno deve superare per arrivare ad accettare la dialisi. La dialisi è un trattamento ospedaliero, cui ci si sottopone ogni due o tre giorni, che rigenera il sangue e non può essere abbandonata pena la morte in breve tempo. Quando questo trattamento fu prospettato a pre Antoni, nonostante la delicatezza ed il tatto dei medici, provocò in lui una reazione naturale ed esistenziale, quasi irrevocabile: “Ch’al lassi che la nature a fasi la so strade” disse al dottore che gli spiegava la ‘catena’ della dialisi, “non umiliante, ma condizionante”. “Parcé a mi Signôr?” Questa domanda che può capitare a ciascuno di noi di dover porsi nel corso della vita, soprattutto quando questa è limitata, asservita, condizionata dalla malattia, può lasciarci senza risposta. “Parcè a mi Signôr?” Se non si riesce a rispondere in brevissimo tempo può indurre a farci molto male.

“Il dolore è quanto di più personale, intrasferibile possa darsi nella vita degli uomini” scrive Salvatore Natoli ed aggiunge che “il dolore per quanto preparati si sia inchioda,comprime ed obbliga”. Bisogna sopportarlo, combatterlo, sperando di vincerlo.

“Il dolor po pocâti a preâ o a bestemâ, ad acetâ o a rifiutâ” scrive Pre Antoni e non nasconde l’ angoscia che si distende sul futuro, né la consapevolezza di avvicinarsi ad un evento finale che tale situazione accelera.

Ricorda le malattie che lo hanno accompagnato da sempre: broncopolmoniti, occlusioni di arterie, infarto intestinale, “la curtissade che mi ha forât i bugjei”, fino alla fase finale: la dialisi.

Con paziente ironia e serenità pre Antoni legge la sua vita, racconta i suoi drammi e propone una via di uscita: accettare.

Non esistono parole che possano convincerti ad essere morituro ed accettare un destino scritto dalla natura. Resta repellente ed illogico, incombente come una frana.

Quest’uomo ci aiuta non ad autoconsolarci, ma ad accettare il nostro destino. Ci insegna ad avvicinarci al fine della nostra vita senza entusiasmo, ma anche senza disperazione. E’ commovente accompagnarlo in quel difficile momento in cui il medico gli conferma che ormai a quel punto, la scelta “l’à fate il mâl” che potrà essere controllato, ma non eliminato o fermato.

Il cambiamento di abitudini, di orari, di vestiti, di alimentazione è registrato con bonaria ironia “cul orari, just, dal ospedâl, a vot di sere si è za stufs di ve zenât” (106) oppure “un come me, ch’al è vivut par une vite dibessól e che s’al sint ancje dome a crizâ une brê nol siere voli, al è evident che al varà di fa vitis di cjan par usasi a durmì cun atre int tune struture simpri in funzion (57).

La “disinvestitura” che l’ospedale mette in atto con tutti i ricoverati è accomunante: siamo tutti uguali. Forse per un prete rinunciare ai suoi segni distintivi, alla sua divisa, al suo potere potrebbe essere problematico. Essere come gli altri dopo aver occupato posizioni di potere, distinti da una divisa, può essere traumatizzante.

La consapevolezza di stare attraversando un periodo di vita buio, non scoraggia pre Antoni che con tenacia e fede prega e chiede un po’ di luce al Signore. E’ una riflessione triste, come è triste l’esperienza di solitudine in cui relega la malattia.

E’ un libro di speranza anche se non nasconde l’improvvisa sofferenza di una malattia che arriva senza alcun preavviso.

Ti vuole convincere che “la flamute” se la cerchi la trovi e così illuminerà la strada della vita.

E’ un libro che ti sprona ad essere coraggioso e ti invita a “puartà la cros e no a strisinale parcé che ti seares lis spalis”.

E’ un libro pieno di fede in Dio, ma anche nell’uomo: “o ai dibisugne di crodi tal Signor, ma ancje in mè” (104).

Si trovano ancora nel libro “De Profundis” una lunga meditazione sulla settimana santa (Pre Antoni è stato ricoverato per la dialisi durante la settimana di Pasqua 2003) e tante domande esistenziali di un uomo che teme di essere abbandonato nel buio.

Quando accetta il trattamento della dialisi recupera la sua ironia e riprende le sue amorevoli critiche nei confronti della struttura “gleseatiche” che spesso ignora la sua malattia, sebbene qualche emissario lo vada a trovare proponendogli ragionamenti e filosofie irritanti.

E’ un vademecum che aiuta a vivere sia quanti hanno già esperienza della malattia che quanti vanno, fischiettando, verso la loro fine.

Questa intensa riflessione pre Antoni la conclude con una aspirazione che attraversa tutto il libro: “che la muart nus cjati vîfs”.

Marino Plazzotta

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